I Netenyahu di Joshua Cohen, una strat del Pulitzer 2022

2023-01-05 15:53:55 By : Mr. Jimmy Deng

Un estratto da I Netanyahu di Joshua Cohen, premio Pulitzer 2022, dal n.23 di Esquire in edicola.

Dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre

Si riporta di seguito un estratto da pagina 160 a pagina 165

Questo fu il mio primo incontro con i Netanyahu, con tutta la famiglia: die ganze mishpocha.

Mentre la moglie rimproverava i figli, il marito tirò indietro il cappuccio per mostrare la faccia che conoscevo o pensavo di conoscere dalla fototessera dimensione passaporto incollata alla buona sull’angolo in alto a destra del suo curriculum: era invecchiato. Aveva cinquant’anni allora, la faccia era una noce dura da spaccare dai lineamenti vagamente mongoli; aveva occhi stretti a nocciolo di oliva e orecchie decisamente enormi e carnose come gusci di ostriche, forti pieghe nasolabiali che mi rifiuto di definire “piccole rughe d’espressione” o “rughe da risata”, perché la bocca in sé era priva di umorismo, tutta labbrastrette. La testa era sormontata da due gobbette da cammello di capelli, la cupola in mezzo era un uovo luminoso di calvizie lentigginosa. Le prime parole che mi rivolse furono: «Il dottor Blum, suppongo?».

«Piacere di conoscerla».

«Dottor Ben-Zion Netanyahu».

Sì, insistette per usare i titoli ufficiali all’inizio e sì, mi strinse la mano senza togliersi il guanto pieno di pelucchi. Il suo accento era più forte di quello che mi aspettavo; era sabbioso, ma più tardi ebbi l’impressione che volesse enfatizzarlo di proposito: Ben-Sion.

«Può chiamarmi Ruben. O Rube. Shalom».

Stavamo sulla neve su quello che poteva essere il marciapiede o il prato, chi poteva dirlo, e lui strinse le labbra e annuì con fare pensoso, come se non riconoscesse il saluto, o ci si stesse arrendendo. «Shalom, Rube».

Condussi l’uomo lungo il sentiero impolverato di neve verso casa, seguito da sua moglie e dai figli che non mi aveva ancora presentato.

Fu solo quando salirono i gradini ed entrarono che la moglie tracagnotta e con i capelli a ciuffi disse: «Mi chiamo Tzila», ma lo disse fissando suo marito, che a sua volta aggiunse: «Si chiama Tzila, mia moglie», e io tirai fuori la mano e Tzila la prese e mi tirò a sé offrendo la guancia. Io la baciai velocemente. Lei offrì l’altra guancia. Baciai velocemente anche quella. Le sue guance erano fredde.

Edith, rinfrescata, con il sorriso che mostrava i denti, ci venne incontro per accoglierci. «Tzila, Ben-Zion, questa è Edith», e Edith disse: «Oh che bello... avete portato i bambini... che bella sorpresa, Ruben non mi aveva detto dei bambini... ecco qui, lasciate che vi prenda i cappotti...».

I bambini e i genitori dismisero le loro pelli identiche e guanti e sciarpe e cappelli e, impilandoli, trasformarono Edith in un appendiabiti.

«Vi dispiacerebbe – la sua voce era un cinguettio smorzato sotto gli strati – togliervi le scarpe?».

Ma i genitori erano già passati sul tappetino d’ingresso senza nemmeno sbattere i piedi per pulirli ed erano entrati in salotto, lasciando strisce di neve sul parquet a formare pozzanghere.

I maschietti detonarono in uno stridio. A quanto pareva, il più alto dei tre era riuscito a infilare una palla di neve di contrabbando dentro casa ed era impegnato a ficcarla ovunque tra i vestiti del fratello di mezzo, nella maglia, nei pantaloni, dentro la vita a molla di uno sparticulo.

Tzila li riprese in ebraico, intanto che quello di mezzo inseguiva il più grande attorno al pianoforte e il più piccolo ululava. Altra neve divenne acqua sul pavimento; impronte di scarpe impregnarono i falsi arabeschi del falso tappeto persiano e Edith ci provò di nuovo: «Per favore, vi dispiace? Le scarpe? Temo che la nostra sia una casa piuttosto orientale».

Tzila disse di nuovo qualcosa, qualcosa dal suono troppo brusco per essere una traduzione, una parola sola impacchettata con densità e impazienza, tesa, declinata e con connotazioni di genere, e i maschietti si impalarono tutti in una volta e si accasciarono dove stavano; i due ragazzi più grandi sul tappeto, il più piccolo sul parquet, e lì iniziarono a strattonare i lacci delle scarpe molte volete allacciati. «Anche voi adulti, se non vi dispiace» disse Edith a Tzila e Netanyahu, che si guardarono perplessi e poi si sedettero sul Nascondiletto per togliersi le scarpe a loro volta.

Nessuno in famiglia, mi resi conto allora, stava indossando stivaletti o galosce o qualsiasi altro tipo di calzatura anche solo lontanamente adatta all’inverno: Netanyahu aveva dei mocassini stringati, Tzila delle ballerine, e i ragazzi scarpe di tela a buon mercato. Le calze di lei erano fradicie, e uno dei calzini di Netanyahu aveva un buco; un alluce spuntava fuori dal tessuto con un’unghia ricurva non tagliata.

Tzila passò le calzature sue e di suo marito a Edith, che si voltò per prendere quelle dei bambini. E mentre ognuno di loro porgeva il suo paio, Tzila li nominò: il più grande era Jonathan, quello di mezzo Benjamin, il più piccolo Iddo, e Edith disse: «Grazie, Jonathan, grazie Benjamin, grazie Iddu», e Tzila disse: «Iddo», e Edith disse: «Iddu», e i due fratelli più grandi si misero a ridere, e qualsiasi parola ebraica scegliessero di utilizzare per battibeccare con il più piccolo della cucciolata, adesso finiva per “Iddu”.

Mentre Edith posava le scarpe per farle asciugare sul tappetino, Tzila indicò le loro età: tredici, dieci e sette anni, e io ricordo di essermi soffermato su quel sequenziamento pensando che fosse l’unica cosa disciplinata e ordinata di quelle persone, di questi Yahu, che era il modo con cui iniziai a chiamarli subito nella mia testa; questi rozzi e chiassosi Yahu che avevano fatto irruzione in casa nostra e nevicato sui pavimenti, e adesso erano di nuovo in piedi e vagavano per tutto il salotto come se lo stessero esaminando per una rapina; Jonathan e Benjamin ispezionavano la cornice del camino, esaminando le navi in bottiglia ispirate alla Mayflower e alla Speedwell, bistrattando i pupazzetti di latta a molla di Hamilton e Burr, e sovraccaricando le vaschette in peltro della bilancia d’antiquariato con dei pesi che continuavano a squittire. Iddo stava tra le loro gambe, colpendo gli alari e scavando nel caminetto, prima di strofinarsi la faccia cospargendola di cenere.

«Ruben» disse Edith, «avremo bisogno di sedie in più... Terra chiama Ruben Blum: va’ a prenderne qualcuna in sala da pranzo».

Tzila, forse capendo male, disse ai ragazzi qualcosa che doveva significare sedetevi, e loro si mossero alla rinfusa alla ricerca di trespoli; Jonathan e Benjamin presero le delicate sedie Shaker che stavano di fronte al Nascondiletto prima che io o Edith potessimo fermarli.

Iddo, senza sedia, provò a salire sul grembo di Jonathan ma venne respinto, e poi cercò di salire su quello di Benjamin, ma venne respinto anche lì, scatenando il tremolio allarmante delle gambe Shaker e delle sedute intrecciate, e – dopo che fu capitombolato a terra pericolosamente vicino al tavolino Chippendale – gattonò via piangendo per asciugarsi il blackface bagnato su un fianco del Nascondiletto e annidarsi tra i suoi genitori.

Io andai in sala da pranzo e presi due delle sedie incorniciate di alluminio, robuste e abbinate al tavolo, le misi ai bordi della conventicola e mi sedetti su una fissando l’altra, cercando di individuare il modo più educato per dire ai ragazzi più grandi di fare a cambio.

«Ho preparato un piccolo rinfresco» annunciò Edith, «molti salati, ma immagino che debba prendere qualcosa di dolce per i piccoli?».

Tzila non rispose, continuava ad accarezzare la testa del bambino con il blackface che frignava, quindi Edith provò di nuovo: «Vi andrebbe se servissi dei b-i-s-c-o-t-t-i?».

Tzila, confusa, ripeté lo spelling: «B-i-s-c-a», ma Jonathan interruppe sua madre: «Biscotti, sta facendo lo spelling di biscotti». Poi si rivolse a Edith: «Parliamo inglese».

Benjamin intervenne: «Non siamo idioti».

«E lui?» disse Edith a Iddo. «Per te va bene?».

«Lui è un idiota» chiarì Jonathan. «Vero Iddy? Ho ragione? Iddy, non sei un idiota che non sa parlare inglese?» Iddo, con la voce ispessita dal piagnisteo, si protese verso la madre e disse: «Biscotti».

Tzila lo sollevò, lo annusò e poi lo posò sopra il tavolino e, senza nemmeno usare una tovaglietta o un asciugamano, iniziò ad abbassargli i pantaloni e a sfilargli il pannolino. «I bambini mangiano tutto» disse come se stesse parlando di quel casino. «Non ha più bisogno dei pannolini, se non la notte e quando facciamo un lungo viaggio in macchina».

Edith, chiudendo gli occhi, scomparve in cucina. In- tanto che Tzila pescava dalla sua borsa un rotolo di carta igienica e puliva Iddo, io domandai: «Ben, Jon, volete fare cambio posto?».

Ma Benjamin si stava sporgendo verso la nudità cinerina del fratello più piccolo titillandogli il pene. Tzila gli schiaffeggiò la mano e Iddo ululò. «Gocciole di cioccola- to pupù» disse Benjamin indicando il pannolino, «gocciole di cioccolato brownie pupù».

«Non è pupù» mi informò Tzila, «è solo pipì, piscio...».

«Urina» disse Jonathan strappando un petalo da una poinsezia.